Agli auguri che
Ettore Masina ha fatto ad
Arturo Paoli su
Lettera 155 (ottobre 2012), con grande piacere, uniamo anche i nostri (A.N.).
Ettore Masina, LETTERA 155, ottobre 2012
Man mano che la vecchiaia mi grava addosso e vedo crescere intorno a me la tenerezza dei miei figli, torno col pensiero al mito di Anchise, il padre che Enea si porta sulle spalle mentre cammina verso un nuovo destino. Ma questa volta il mito non mi sorregge perché devo parlare di una persona che ha sedici anni più di me.
A osservarla mentre se ne sta in silenzio, quella persona sembra un vecchietto lindo e sorridente, un po’ curvo (ma certo non tanto se si pensa che è nato nel 1912), con una bella chioma bianca: immagine rassicurante, di buon nonno, persino somigliante a quella di certi spot pubblicitari; ma quando il vecchio Arturo Paoli viene invitato a parlare, allora sembra rivestire il mantello del profeta Eliseo e la sua voce grida un vangelo inquietante.
La voce di Arturo Paoli, come ben sanno i suoi ascoltatori, è innanzi tutto un miracolo fisiologico: viene da polmoni giovanissimi che le consentono di dispiegarsi in chiese e in aule di convegni tanto da far vibrare le fibre dei tavoli e i vetri delle finestre. Mi ha detto una volta uno pneumologo: “Quest’uomo respira Spirito Santo”. Le parole che questa voce ci rivolge non sono mai aspre né minacciose, improntate, invece, a tenerezza per noi, ma severe nei confronti delle nostre coscienze e dei costumi e istituzioni dietro le quali cerchiamo di nasconderci. Le parole che Arturo grida o scrive, o canta all’alba, come ben sa chi lo ospita, più che indicarci i nostri infantili peccati personali ci additano l’enorme, genocida peccato collettivo, la arrogante risposta corale degli innamorati del potere – e di noi troppo spesso loro pavidi servi – alla domanda del Creatore: “dov’è Abele?” “E chi lo sa? Siamo forse i custodi dei nostri fratelli?” rispondono e rispondiamo. “Sì, grida il Signore con la voce di Arturo: sì, per questo vi ho creato: perché vi prendiate cura l’un l’altro di voi”. Il vecchio amatore di filosofi è ormai convinto che “metafisica” e “trascendenza” siano parole che acquistano senso soltanto quando nascono dal coraggio di affrontare gli occhi di chi soffre.

Dietro questa convinzione e testimonianza di Paoli c’è ovviamente la sua esperienza storica. Egli ha il grande privilegio della lucidità senile: la quale diventa straordinario aiuto a quanti sanno che la memoria del passato è lezione preziosa per il futuro. Il nostro amico (e maestro) era bambino mentre in Messico e a San Pietroburgo sventolavano le prime bandiere delle rivoluzioni popolari; imparava a leggere e scrivere mentre in Italia venivano incisi nei marmi delle lapidi menzognere i nomi di centinaia di migliaia di poverissimi analfabeti, gettati nella fornace della prima guerra mondiale, e i reduci tornavano piagati e piegati dall’amarezza di una giovinezza perduta. Era un ragazzo quando vedeva le piazze della sua Lucca segnate dalla violenza fascista; entrava in ginnasio mentre Mussolini liquidava con ferocia la democrazia parlamentare; era un prete di 32 anni quando la crudelissima persecuzione degli ebrei lo spinse a rischiare la vita per salvare le vittime dell’odio di Stato e, quando, pochi mesi più tardi, si alzarono nel cielo i funghi velenosi dell’apocalisse atomica: e Auschwitz, Colima e Hiroshima diedero nome alle supreme barbarie di un secolo.
Più tardi avrebbe assistito in America Latina a orrendi regimi militari e resistenze eroiche, a spaventosi eccidi, al martirio degli empobrecidos; avrebbe ascoltato le spaventose notizie che filtravano dalle camere della tortura, e visto crescere un nuovo classismo (capitalista), una nuova lotta di classe con la quale un’oligarchia della quale facciamo parte, più o meno volontariamente, anche noi, riduce all’insignificanza interi popoli – e alla fame.
La strada sui cui Arturo cammina da tanti anni è fiancheggiata dai ruderi di molte ideologie, speranze, illusioni, civiltà, filosofie, piccoli Mozart (per dirla con Saint-Exupéry) assassinati dalla miseria. Sulla stessa strada ha camminato la Chiesa, la “sua” Chiesa: quella che egli enormemente ama ma della quale conosce il dramma di essere semper casta et meretrix, come la definivano gli antichi Padri: congregata intorno al Crocifisso risorto e però popolata da uomini quasi sempre, quasi tutti, infedeli per viltà e per egoismo.
Molte di queste infedeltà hanno segnato anche le spalle di Arturo, e un po’ anche quelle di chi ha vissuto una parte della sua storia. Ricordo con dolore gli anni fra il 1948 e il 1958. Ero nel Consiglio diocesano della Gioventù italiana di Azione cattolica di Milano, gruppo ribelle, di quando in quando, agli ukase che giungevano dalla Roma vaticana. Rifiutavamo di entrare nel “grande” partito anticomunista nel quale Luigi Gedda, con il compiacimento di Pio XII e della Confindustria, avrebbe voluto fondere le “truppe” cattoliche, i fascisti, le forze padronali, le massonerie militari e via dicendo, per una guerra di religione. Ci capitava, per incoraggiarci nei momenti più bui, di fare un censimento dei nostri “protettori” romani: elencavamo monsignor Montini, monsignor Dell’Acqua, Carlo Carretto (più tardi Mario Rossi), don Arturo Paoli… Tranne Dell’Acqua, tutti gli altri furono esautorati e dispersi nei “giorni dell’onnipotenza”, gli ultimi tempi pacelliani.
Perdemmo allora (io persi) notizie di Arturo, poi seppi che si era imbarcato sulle navi che trasportavano i nostri emigranti nella soccorrevole Argentina di Peròn. Poi che si era fatto Piccolo Fratello. Poi egli disparve nuovamente (o mi sembrò) nel tragico panorama dell’America Latina: villas-miserias, poblaciones, favelas, cantegriles. Il Cristo che vi raggiunse era esigente, imponeva conversioni; ma era anche un Risorto fraterno, talvolta festoso.
Ricordo l’emozione con la quale ricevemmo durante il Concilio una lettera inviata da lui a Mario Rossi: ci chiedeva di essere attenti a che l’assemblea di tutti i vescovi della Terra non diventasse un momento “giacobino”, cioè il tentativo di riformare soltanto intellettualmente la Chiesa , senza imprimerle il segno e il linguaggio dei poveri nei quali il Cristo si è identificato.
Per questo il vecchio indomito di quando in quando torna e ritorna fra noi, lasciando le sue nuove patrie. Viene come un messaggero. Ci porta il vangelo non più glossato dai seriosi teologi nelle celle dei conventi o nelle aule delle università ma restituito alla sua rischiosa purezza dall’esperienza dei poveri, dalla loro concretezza, dal loro ammaestramento così eloquente anche quando è silenzioso. Ricordo un aneddoto raccontato una volta da Arturo. Era da alcuni giorni in un poverissimo villaggio dell’America Latina quando gli arrivò un pacco di posta. Vi trovò, fra l’altro, una notificazione della Congregazione vaticana per il culto divino nella quale si disponeva che per la consacrazione eucaristica si usassero soltanto calici rivestiti internamente d’oro o d’argento. Rise, Arturo: “Avevamo appena celebrato la messa, come ci sembrava doveroso, nella capanna di una poverissima vedova; e naturalmente come calice avevamo usato un bicchiere di vetro scheggiato. Quella notificazione ci divertì grandemente. Fu motivo di ricreazione, di elevazione…”.
Tornando e ritornando dalla Chiesa dei poveri, ogni volta mi sembra che Arturo ci scruti, temendo che il sistema in cui siamo più o meno tranquillamente insediati ci rubi il cuore. Da qualche anno ha incontrato il pensiero del grande filosofo Levinas (anche lui povero: profugo, straniero), gli ha dedicato uno dei suoi numerosi libri e ne rilegge continuamente gli insegnamenti. Dire, come Levinas, che dobbiamo darci in ostaggio al volto dell’altro, del fratello che soffre, gli sembra una versione dell’evangelo, riletta finalmente da un filosofo disposto a chinarsi sui dolori e le speranze dei poveri, né lo arresta il fatto che Levinas non fosse (o non si dicesse) cristiano. Ma io credo che Arturo piuttosto che leggere libri preferisca intendere le voci della Terra: il fragore delle cascate di Iguaçu, presso cui abita, che sembra l’immenso grido dell’America Latina ferita dall’ingiustizia e lo strillo gioioso del bambino che egli accarezza nella “sua” favela; le canzoni dei giovani che vogliono la pace e il sussurro di chi gli affida i suoi problemi: è un salmo che lo accompagna e che lui, all’alba, canta mentre il sole ancora un volta sorride alle sue primavere…
Sette anni dopo
Ho scritto queste parole sette anni fa, come prefazione al bel libro che Francesco Comina ha dedicato ad Arturo. Sette anni per un quasi centenario sono tantissimi o, al contrario, poco più che un soffio? Non so dare risposta a questo interrogativo, essendo troppo giovane o troppo vecchio nei confronti di questo pellegrino. Lui non ci pensa, direi. Apparentemente è cambiato ben poco. Si è fatto un po’ più curvo, quasi volesse diminuire la distanza fra il suo orecchio e il suo cuore per sentire meglio il pulsare della storia nella quale è immerso; la voce si è un po’ incrinata e il ruggito del profeta si è tramutato nel tono confidenziale del nonno che sa che lo ascoltano anche dei bambini, ma invece che favole racconta la storia dei poveri e delle loro lotte di liberazione.
È cambiato il contesto in cui questo pellegrino della Chiesa del Concilio continua la sua missione di evangelizzatore. Fratel Arturo assiste oggi senza abbassare gli occhi alla tragica crisi di un capitalismo che ha smarrito ogni legittimità e si avvoltola nella violenza di chi considera gli uomini come astrazioni, cifre senza corpi, senza lacrime, senza speranze, senza diritti: e semina sacrifici e iniquità nascondendosi dietro il volto pulito dei professori che governano “senza fare politica”, sereni esperti di tecniche di governo che aggrediscono i poveri come se fossero loro (gli empobrecitos, i “dannati della Terra”) i colpevoli della devastazione del pianeta. Lui, il primo a usare in teologia la parola “liberazione”, aveva previsto mezzo secolo fa questa tragedia apocalittica; e l’andava profetando ai Personaggi del Fondo Monetario Internazionale e ai Potenti della Terra cui il Padre ha negato la rivelazione delle paci possibili.
Quante immagini, quante parole di salvezza, di perdono,quanti racconti di odio, di amore abitano oggi il cuore di questo vecchio Ne percepiamo il respiro se appena ci avviciniamo a lui, o rileggiamo i suoi libri che gli editori continuano a ripubblicare come preziose indagini del nostro tempo, Qualche tempo fa ha confidato che il motto segreto del suo lungo cammino è sempre stato “Non tradirsi e non tradire”. A pensarci bene, è la decisione di ogni vero rivoluzionario, di una forza che la vecchiaia non può piegare.